Pochi giorni prima di andare al cinema a vedere Blade Runner 2049 ho diligentemente recuperato il primo, immenso, capitolo della saga, che avevo visto una sola volta oltre dieci anni fa. E questo ha inevitabilmente inciso (molto) sul mio giudizio complessivo dell’atteso seguito diretto da Villenueve, dal quale, dopo l’ottimo Arrival, mi aspettavo qualcosa in più. Ma andiamo con ordine.
Giovedì 9 novembre 2017, ore 21:30. Si abbassano le luci al Mexico di Milano, dove sta per iniziare la proiezione in lingua originale. Popcorn alla mano, postazione centrale a mezza sala grazie all’arrivo anticipato, mente sgombra da influenze critico-cinematografiche (ne ho evitato accuratamente la lettura), sono pronto a gustarmi un grande spettacolo.
E i primi minuti di Blade Runner 2049 sembrano confermare le mie attese. Lunghe carrellate panoramiche su angoscianti agglomerati post-urbani dove la tecnologia sembra aver consolidato il suo primato sulla natura e sull’umanità, scelte cromatiche e atmosferiche di gusto sopraffino che sono un evidente ma azzeccatissimo omaggio al capostipite, spazi dove la luce naturale è solo un ricordo e domina l’oscurità perenne. Il tutto esaltato da un tappeto sonoro che passa dritto dalle orecchie allo stomaco con un uso prevalente di profondi rombi sintetizzati che richiamano l’artificialità del mondo a cui fanno da sottofondo, e con ispiratissimi temi musicali che sono quantomeno all’altezza dell’opera originale di Vangelis (gran lavoro del duo Zimmer-Wallfisch).
Insomma, in quanto a immagine e colonna sonora capisco subito di avere di fronte un pezzo cinematografico di pura distopia sci-fi di altissima classe. Ci siamo, è davvero Blade Runner.
Poi arrivano Ryan Gosling e la storia
E tutto si ridimensiona un po’. Intendiamoci, ho apprezzato e trovato molto riuscita l’interpretazione di Gosling dell’agente K, e la trama di stampo investigativo, sebbene tanto lineare che potrebbe quasi essere una puntata di CSI, è piuttosto godibile. Ma quando si entra nel vivo la magia iniziale si disperde un po’, è inevitabile, e la successione degli eventi dà forma a una vicenda in cui le atmosfere e la poesia del primo Blade Runner si riducono a meravigliosi intermezzi.
L’entrata in scena di Harrison “Deckard” Ford a mio avviso non alza più di tanto l’asticella, per quanto sia molto più di un semplice cameo e porti a galla ovvie (e attesissime) connessioni con le questioni rimaste irrisolte dal lontano 1982, e la narrazione resta comunque piuttosto piatta.
Poi ci sono la ragazza virtuale, il cattivone e la fabbricante di ricordi
E qui, sinceramente, mi sono cadute un po’ le palle. Perché:
- la fidanzata virtuale dell’agente K sembra Her;
- il personaggio interpretato da Jared Leto è un cattivone visionario da quattro soldi con segretaria personale inclusa;
- la ragazza-che-crea-i-ricordi-dei-replicanti è una disadattata sotto vetro che starebbe bene in un fumetto Marvel (senza nulla togliere).
E l’universo di Blade Runner ne esce un tantino storpiato, perché la sofferenza folle e poetica dei robot del film di Scott lascia il posto a trovate fantascientifiche molto più grossolane che fra l’altro sanno di già visto (in senso negativo).
In generale, inoltre, si perde quel fascino misterioso del non-detto che caratterizzava il primo capitolo, a favore della linearità della storia e della ricerca del senso a ogni costo, anche quando esse portano a sbocchi narrativi che forse sarebbe stato meglio trattare solo marginalmente.
In due parole
Un film nel complesso godibile, ma ricco di alti e bassi e inevitabilmente privo della poesia allucinogena del primo Blade Runner.